Vampire titolate: dalla contessa Báthory alla principessa boema che ispirò Bürger
A dire il vero, i casi riconosciuti di donne affette dal morbo del vampirismo non sono molti.
Sicuramente, il primo pensiero va a Erzsébeth Báthory, la ormai famosissima Contessa sanguinaria, sposa nel maggio 1575 del conte ungherese Ferenc Nàdasdy. Introdotta alla magia nera e al sadismo dall’esperta di stregoneria Dorothea – detta Dorka – Szentes e dal suo servo Thorko, è solita sperimentare ogni forma di tortura e perversa sevizia sulle giovani serve del castello.
Presto si convince, inoltre, che bere o fare lunghi bagni immersa nel sangue di fanciulle vergini (meglio se di nobile rango) sia l’unico modo per conservarla dall’invecchiamento, fenomeno da cui è terrorizzata; in breve tempo, perde ogni freno inibitore, lasciando libero sfogo alla sua furia assassina.
Le si attribuiscono come minimo ottanta omicidi, anche se gli storici parlano di un numero di gran lunga superiore di vittime, tra le trecento e le seicentocinquanta, fatto che la rende una delle più prolifiche assassine della storia.
Senza indugiare oltre sulla Contessa Báthory, di cui notizie in merito sono facilmente reperibili, è sicuramente di maggiore curiosità introdurre casi meno conosciuti ai più.
Eleonore Von Lobkowicz, consorte del principe austriaco Adam Von Schwarzenberg dal 1701, è l’esempio più evidente di quanto la paura del morbo vampirico fosse dilagata anche tra la nobiltà del XVIII secolo.
Colta e con una grande passione per la caccia, praticata personalmente molto spesso nella campagna boema, Eleonore diviene presto nota per le sue abitudini alquanto particolari: l’enorme desiderio (e la necessità) di dare alla luce un erede maschio si trasforma nel più profondo cruccio della principessa la quale più volte, senza successo, aveva cercato di rimanere incinta; pur di concretizzare la volontà di una gravidanza, si affida a un metodo antico e piuttosto “particolare” che prevedeva l’assunzione regolare di latte di lupa.
Non c’è da meravigliarsi se la strana pratica, unita agli ululati delle lupe, catturate durante le battute di caccia e allevate in gabbie per procurare alla donna il loro latte, contribuì a diffondere voci tra gli abitanti del posto.
Dopo anni in cui Eleonore si sottopone a tale rimedio, finalmente i suoi sforzi sono premiati: alla tarda età, per l’epoca, di 41 anni partorisce un figlio maschio.
Tuttavia, la gioia ben presto lascia spazio ad una tragedia da cui è fortemente segnata: il marito rimane ucciso, nel 1732, in una battuta di caccia nei pressi di Praga e, a seguito dell’accaduto, il tanto desiderato figlio le viene portato via, per essere allevato alla corte dell’imperatore a Vienna.
Questi due fatti incrementano l’ossessione della principessa per l’occulto, per i simboli magici e gli incantesimi.
Dulcis in fundo, come si suol dire, a rendere ancora più solide le convinzioni del popolo sull’ambiguità di Eleonore è l’intenso, quanto veloce, decadimento fisico che subisce, apparentemente immotivato e dai sintomi incurabili, nonostante le frequenti visite dei medici.
Sovente la medicina del tempo non offriva soluzioni definitive e inevitabilmente ciò creò un ampio bacino in cui la superstizione ebbe modo di attecchire saldamente e tra i contemporanei della Von Schwarzenberg si insinuò il sospetto del vampirismo.
La principessa muore il 5 maggio 1741 a Vienna. È immediatamente eseguita un’autopsia sul cadavere, fatto non frequente al tempo, la quale rileva la presenza di quella che oggi noi definiamo “neoplasia della cervice uterina”. Ciò che appare, però, decisamente strano è che nei documenti trascritti a seguito dell’intervento è sì presente una diagnosi, ma non è specificata la causa della morte.
Quale utilità, dunque, di un’autopsia (allora raramente effettuata) senza trascriverne il risultato ultimo?
La spiegazione potrebbe trovarsi, ancora una volta, nella credenza popolare: probabilmente non si trattò di un vero esame autoptico, ma di un classico rituale anti – vampiro mascherato da autopsia. Ciò è confermato in primo luogo dalle misure di sicurezza assunte tempestivamente a Krumlov, luogo in cui si svolge la vicenda, a seguito della dipartita di Eleonore: è incrementata, infatti, la sorveglianza al castello ed è istituito un servizio di vigilanza dislocato su tutto il territorio.
È chiaro che l’obiettivo fosse proprio quello di impedire al feroce vampiro, tanto forte da aver contagiato persino una principessa, di mietere altre vittime.
Il funerale si svolge nella chiesa di San Vito a Krumlov il 10 maggio, dopo che nessuno tra la nobiltà, nemmeno il figlio, va a porgere l’ultimo saluto alla salma.
È sepolta di notte, nella cappella laterale della chiesa di San Vito, con una lapide su cui non troviamo scritto né il nome, né lo stemma di famiglia, né il titolo nobiliare, ma soltanto «Qui giace Eleonore, povera peccatrice».
La sepoltura, recentemente analizzata prima con geo-radar e poi concretamente, ha chiarito tutti i dubbi circa la fama che la principessa si era guadagnata tra nobili e sudditi: si scopre, infatti, che la sua bara è murata al di sotto di una spessa armatura di cemento, a sua volta ricoperta da terra proveniente da un camposanto e sigillata sotto la pesante pietra tombale. Insomma, ci si volle assicurare che l’aristocratica vampira non tornasse più indietro.
È estremamente interessante notare quanto la storia della principessa Eleonore sia stata in grado di influenzare la cultura dell’epoca.
Lo stesso Bram Stoker ne fu presumibilmente affascinato: l’intenzione originaria dell’autore era quella di avviare il suo più celebre romanzo descrivendo l’attacco notturno al giovane Jonathan Harker da parte di una vampira, nei pressi della tomba di una principessa austriaca.
La narrazione avrebbe inoltre previsto che, dopo aver perso i sensi, Harker si sarebbe risvegliato, trovando su di lui un lupo a tenere in caldo il sangue per la diabolica creatura, evidente riferimento all’abitudine della nobile. Da sottolineare, infine, la citazione che Stoker avrebbe inserito se avesse scelto tale incipit, sotto forma di iscrizione posta sul retro della tomba principesca: «I morti cavalcano in furia».
La frase «I morti cavalcano in furia» è tratta da un’antica ballata composta dal poeta sassone Gottfried Augustus Bürger del 1773 intitolata Lenore. Se il titolo non appare casuale, ancor meno casuale è il suo contenuto: la ballata, considerata uno dei primi riferimenti letterari ai revenant, narra la vicenda di una sposa, appunto Lenore che, disperata per la morte in guerra del marito Guglielmo, maledicendo il Cielo ne invoca il ritorno…e Guglielmo ritorna, ma come non morto: «Noi non mettiamo sella che verso mezzanotte.
Lungo viaggio cavalcai a questa volta, fino dalla Boemia. Tardi ho preso il cammino, tardi: e voglio condurti meco».
Il revenant, che qui fa la sua comparsa a seguito dell’invocazione della sua amata (introducendo così la nuova visione gotico – romantica del non morto), afferma di provenire dalla Boemia, elemento che nuovamente ci conduce alla terra natia della Lenore storica.
Altri casi di vampirismo femminile
Allontanandoci dalle terre balcaniche e dalla realtà aristocratica, è di particolare rilevanza riportare vicende legate al vampirismo svoltesi in località meno “canoniche”.
Il primo caso, non molto noto in Europa, è quello di Mercy Lena Brown. Ci troviamo nel Rhode Island, in una cittadina della Contea di Washington chiamata Exeter, alla fine del XIX secolo, epoca in cui il New England vede il propagarsi di un terribile male: la tubercolosi, denominata anche “consunzione” per l’effetto di consumare il corpo di chi la contrae; era questa la più grave causa di mortalità del tempo.
La famiglia Brown, numerosa e dedita all’agricoltura come la maggior parte delle famiglie del luogo, non ebbe scampo: le prime ad esserne colpite furono la madre Mary Eliza e la figlia Mary Olive; 10 anni dopo, nel 1892, anche la seconda figlia Mercy Lena dipartì.
Il padre George, temendo di essere emarginato, rischio che rappresentava una triste realtà al tempo quando si sospettava che qualcuno fosse stato contagiato, diffuse la voce che la causa della morte della figlia 19enne Mercy fosse stato un vampiro, un membro della famiglia divenuto un revenant.
La situazione si aggravò quando anche il figlio minore Edwin, unico maschio, iniziò a presentare i primi segni di consunzione. Anche in questo caso, George Brown affermò che Edwin fosse solo l’ultima vittima di un parente ritornato come vampiro; in più, per avvalorare la sua tesi e fugare ogni dubbio dei concittadini sul fatto che nessuno dei suoi figli si fosse a sua volta trasformato in una creatura ematofaga, acconsentì all’esumazione dei cadaveri.
Aperta la cripta di famiglia, furono rivelate le salme della moglie e di Mary Olive, che apparvero in decomposizione, mentre sorprendentemente quella di Mercy Lena presentava tutto un altro aspetto: il corpo della fanciulla apparve ancora fresco e con abbondanti tracce ematiche nel cuore e nel fegato; in più, un rivolo di sangue rappreso si faceva strada dalla sua bocca.
Gli abitanti del posto, ormai convinti della natura diabolica e immortale di Mercy, riservarono al suo cadavere il trattamento previsto per i vampiri: cuore e fegato vennero estratti dal corpo e furono bruciati su una roccia vicina.
In un ultimo, estremo tentativo di guarire il fratello Edwin, le cui condizioni nel frattempo si erano fortemente aggravate, ci si affidò ad un macabro rimedio: dopo essere stato sottoposto a varie benedizioni, al bambino fu fatto assumere un intruglio contenente le ceneri del cuore della sorella. Ovviamente, Edwin morì all’incirca due mesi dopo.
In realtà, non è difficile dare una probabile spiegazione al buono stato della salma della ragazza: la sua recente sepoltura, avvenuta solo due mesi prima dell’esumazione, era stata effettuata durante l’inverno, per cui le rigide temperature raggiunte avevano sicuramente favorito la conservazione dei tessuti.
Del caso di Mercy Brown si occupò il Providence Journal, che seguì gli sviluppi della curiosa vicenda fino al suo epilogo, contribuendo così alla diffusione della storia della “vampira del Rhode Island”. Pare che anche Bram Stoker ne fosse a conoscenza, giacché un ritaglio dell’articolo è stato rinvenuto proprio tra i suoi appunti.
Un caso che ha molti punti in comune con quello di Mercy Brown, a partire dal luogo che fa da sfondo alla vicenda (ci troviamo sempre ad Exeter, Rhode Island), ma di circa un secolo precedente è quello di Sarah Tillinghast.
Pare che una premonizione avesse avvertito in sogno il padre di famiglia, il contadino Stukeley, della tragedia che presto lo avrebbe colpito: l’immagine della metà dei suoi alberi di mele oramai secchi si rivelò la metafora di una serie di decessi che avrebbero di lì a poco colpito i suoi cari.
Sesta di quattordici figli, Sarah morì nel 1799, ancora una volta di “consunzione”. Anche se due fratelli l’avevano preceduta, la sua morte scatenò una sorta di psicosi tra gli altri familiari: uno per uno i fratelli superstiti di Sarah si ammalarono, affermando che fosse proprio la sorella defunta ad essere causa della loro condizione; essi riferivano che Sarah faceva loro visita durante la notte, per poi posarsi su di loro bloccandoli e fissandoli con un sorriso diabolico.
La morte dei tre fratelli scatenò il terrore nella comunità di Exeter. Gli abitanti in preda al panico chiesero allora al padre Stukeley di riaprire le bare dei figli per verificare che non ci fossero, nei loro corpi, tracce di vampirismo.
Le tombe furono aperte. Se i corpi dei figli minori si mostravano in corso di decomposizione, quello di Sarah aveva i segni tipici del morbo demoniaco: occhi aperti, unghie allungate e cuore con ancora del sangue al suo interno. Il responso fu quello che oramai conosciamo, ed anche le conseguenze: come quello di Mercy Brown, anche il cuore di Sarah fu estratto e ridotto in cenere.
È evidente come, nel New England, la caccia ai vampiri si fosse sostituita alla caccia alle streghe del secolo precedente.
Una scoperta abbastanza recente apre un nuovo scenario anche sul vampirismo in Italia.
Scavi archeologici condotti dall’antropologo e archeologo forense Matteo Borrini nel camposanto dell’isola del Lazzaretto Nuovo, nei pressi di Venezia, hanno fatto riemergere una sepoltura risalente al XVII secolo.
Lì erano stati tumulati i resti di una donna e non una donna qualunque, ma una presunta vampira: ciò si evince dalla modalità in cui si è inferto sul corpo, tra le cui mandibole è presente un grosso mattone, infilatovi forzatamente post mortem e introdotto tanto violentemente da rompere denti e mascelle.
Secondo Borrini, alla defunta era stato riservato il trattamento generalmente previsto per i “nachzehrer” – letteralmente “masticatore di sudari” o “divoratore della notte” – non morti apparsi originariamente nella Polonia del ‘300, usi a masticare il proprio velo funebre per poi nutrirsi del sangue dei cadaveri vicini, in particolare degli appestati, in modo da riemergere dalla propria tomba e diffondere l’epidemia tra i vivi.
Questo spiega, dunque, il mattone spinto nella bocca della donna sepolta, estremo tentativo di impedirle di cibarsi e di spargere l’epidemia. La vampira di Venezia è pertanto la testimonianza di quanto l’idea del “demone della peste”, nata nelle terre dell’Europa dell’Est, sia stata in grado di farsi strada nelle altre culture, tra cui quella italiana.
«Un nosferatu non muore come un’ape dopo che ha punto. Diviene solo più forte, e così più forte, ha ancora più potere per operare male» affermava Bram Stoker, nel suo Dracula. Il vampiro, o “nosferatu”, così descritto dall’autore irlandese ha contribuito a diffondere l’immagine della creatura notturna, diabolicamente crudele e seducente che ancora oggi la fa da padrone nell’immaginario collettivo, sostituendo quella originaria ben lontana da tale descrizione.
Il termine “nosferat” emerge dalla cultura folklorica rumena ed indica un essere mostruoso che, uscendo dalla propria tomba, di notte si reca nelle abitazioni per nutrirsi del sangue delle persone addormentate, ma che è anche in grado di avvicinare i vivi assumendo le sembianze di un gatto o di un cane nero.
Inoltre, secondo la tradizione, spingerebbe le proprie vittime a compiere riti orgiastici con lui per generare figli dall’aspetto terribile, ricoperti di peli e destinati inevitabilmente a diventare streghe o stregoni, i cosiddetti “moroiu”. La parola nosferat, identificando il “non morto”, diviene sinonimo di vampiro, termine di incerta derivazione etimologica: alcuni la rendono diretta discendente del magiaro “vampyr”, altri del serbo “vàmpir”, altri ancora del turco “ueber”, che significa “strega” (soluzione probabilmente più attendibile).
Fonte: Cicap
Ti è piaciuto questo post?
Clicca su una delle stelle per votarlo!
Very energetic article, I enjoyed that a lot. Will there be a part 2?
I commenti sono chiusi.